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Il contatto come fondamento sociale: una riflessione filosofica ai tempi del Coronavirus

di Enrico Liverani

Da quando il 21 febbraio i giornali hanno riportano la notizia del primo caso in Italia di paziente infetto da Coronavirus (Covid-19), la situazione è rapidamente deflagrata, sfuggendo di mano alle Autorità, le quali avevano evidentemente sottovalutato la portata del fenomeno. Dopo solo 21 giorni, si contano 12.462 casi accertati (senza contare, dunque, il numero indefinito di individui asintomatici ma portatori sani e di chi, per sintomi lievi, non si è sottoposto a tampone), di cui 827 deceduti. Dopo un’incertezza iniziale, decreto dopo decreto, ci siamo trovati improvvisamente a perdere il diritto di uscire di casa se non per comprovati motivi di salute, necessità o lavoro e ad osservare impotenti la chiusura di scuole, università, uffici, negozi, centri commerciali, stadi, bar, ristoranti e di tutti gli altri luoghi di vita in comune considerati non essenziali. In altri termini, la situazione si è aggravata a tal punto che il Governo ha deciso, per tutelare la salute pubblica, di spegnere ogni attività sociale fino al superamento dell’emergenza nazionale.

Lasciando da parte considerazioni di natura epidemiologica o politica, che non ho le competenze per sviluppare, vorrei abbozzare qui una breve riflessione filosofica, confermando la mia fiducia nel fatto che la filosofia è uno degli strumenti più idonei per osservare i fatti e, a partire da questi e con l’ausilio delle discipline scientifiche, per rielaborarli, perché no, anche in chiave metafisica.

In tutte le nostre attività sociali, dalle chiacchiere al bar agli eventi sportivi, dalle sedute in Parlamento ai simposi accademici, dalle sagre paesane ai meeting aziendali, si nascondeva all’osservazione un presupposto basilare, capace insieme ad altri di tenere in piedi la struttura stessa del sistema sociale, ma così ovvio da non attirare l’attenzione di alcuno: il contatto, la vicinanza, la promiscuità. Improvvisamente, costretti a restare chiusi in casa o, nella migliore delle situazioni, a rimanere ad un metro di distanza gli uni dagli altri – senza poterci dare la mano per salutarci -, ci accorgiamo che lo stare vicini era qualcosa di scontato, la cui importanza fondamentale (dove il termine è da considerarsi alla lettera, sottolineando proprio la sua natura di fondamento) non eravamo in grado di vedere fino a quando non è stato minacciato. È Wittgenstein (Della certezza)a introdurre per primo, attraverso la nozione di cardine, la centralità di questo genere di presupposizioni: si tratta di verità che costituiscono lo sfondo del nostro agire e delle nostre credenze, sfondo che non mettiamo mai in discussione se non in circostanze anomale come, ad esempio, un’epidemia. I cardini non si notano a meno che la porta non smetta di girare, che è proprio ciò che sta accadendo in questi giorni, sia materialmente sia metafisicamente: le porte delle scuole, delle palestre, dei bar, dei negozi, degli uffici e, improvvisamente, ci siamo accorti di un perno attorno al quale tutto girava, il contatto. Come il presupposto che tutto ciò che si progetta di fare lo si può fare a condizione che non si muoia, solitamente non espresso nel nostro discorrere quotidiano a meno che non si sia immersi in un contesto in cui si rischi effettivamente la vita, così il contatto reciproco è sempre rimasto lì in silenzio, nascosto dietro ad ogni azione.

Se ci spostiamo su una dimensione logico-linguistica, scopriamo, infatti, che il contatto tra persone sembra essere uno dei presupposti nascosti di molti enunciati dichiarativi, anche nel caso in cui compaia un solo soggetto. Prendiamo questo esempio:

Il bambino ha calcolato l’area del triangolo

Questo enunciato è vero (cioè il fatto che descrive si è verificato), solo a condizione che si verifichi una lunga serie di presupposti che devo assumere come veri, solitamente inespressi, che insieme fanno da sfondo allo stato di cose qui rappresentato e che, d’ora in avanti, chiameremo assunzioni implicite:

         C’è un sistema scolastico che prevede che si insegni la geometria euclidea

         C’è un sistema scolastico

         Il bambino ha un maestro come previsto dal sistema scolastico

         Il maestro conosce i fondamenti della geometria euclidea

         Il maestro ha un quoziente intellettivo adeguato

         Il bambino ha un quoziente intellettivo adeguato

         Il maestro e il bambino condividono lo stesso codice linguistico

         Il maestro e il bambino sono vivi

        Il mondo esiste

Come è evidente, si potrebbe proseguire all’infinito, anche perché bisognerebbe assumere tutti gli enunciati negativi del tipo:

Il maestro non è pazzo

La scuola non è andata a fuoco

Non c’è un’epidemia che ha determinato la sospensione della scuola

Ecc.

Da questo semplice esempio, risulta chiaro che solitamente le assunzioni non vengono espresse per ragioni economiche: sarebbe piuttosto costoso, per non dire impossibile, esprimere anche il più semplice enunciato, al punto da compromettere la stessa comunicazione umana.

Vengo ora all’assunzione implicita che qui mi interessa, così da poter sviluppare le poche e frammentate riflessioni nate in questi giorni di reclusione:

Il maestro e bambini sono stati nello stesso luogo

dove lo stare nello stesso luogo prevede, solitamente, che ci si sieda vicini, che il maestro chiami il bambino alla cattedra accanto a sé, che gli porga un gessetto per disegnare il triangolo alla lavagna, ecc. Questo pacchetto di ulteriori e più dettagliate assunzioni implicite (chiamiamole di secondo livello) descrive solo una delle famiglie che risiedono (per usare un tecnicismo dovrei dire ‘in modo estensionale’) sotto la proprietà più generale ‘essere nello stesso luogo’, e cioè quella del ‘contatto fisico’:

Il maestro e il bambino sono a contatto

Al di là della realtà della situazione di questo esempio, quello che ci interessa qui è la possibilità di pensare una situazione simile: un mondo in cui un bambino apprende i fondamenti euclidei è possibile (quindi pensabile), solo se maestro e bambino sono a contatto – lasciamo stare, per il momento, la possibilità che ci forniscono i nuovi media di lezioni a distanza, su cui mi soffermerò dopo. Vero è che un bambino molto intelligente potrebbe apprendere i teoremi euclidei da autodidatta, ma se questo non è propriamente impossibile, sicuramente è molto improbabile. Il contatto sembra essere, così, uno dei fondamenti dell’intero sistema sociale su cui la specie umana, in tutti i tempi, in tutti i luoghi e in tutte le culture, ha piantato le sue radici. Sono, infatti, pochissime le attività umane che si possono svolgere in modo del tutto indipendente dalla vicinanza fisica degli altri. Al di là delle attività fisiche che si possono compiere da soli – che in fin dei conti non sono molte –, lo spazio che tradizionalmente viene considerato autonomo e privato è quello mentale, intendendo con questo termine non solo il pensiero, ma anche la decisione, la volontà, il giudizio, il sentimento, ecc. Per usare un termine caro alla filosofia della mente, a rigore si dovrebbe parlare di intenzionalità.Tuttavia, ad un esame più approfondito, ci rendiamo chiaramente conto che tutte queste attività solitarie, sia quelle fisiche sia quelle mentali, si fondano su un presupposto implicito comune, cioè quello del contatto tra individui dotati di intenzionalità. Èvero che quando penso penso da solo e che nessuno potrà mai sapere il vero contenuto intenzionale del mio pensiero, ma nella maggior parte dei casi penso ad azioni, scelte, ricordi, concetti, ecc. che, come nell’esempio del bambino e del maestro, mettono in relazione più individui e che sono realizzabili solo se sono a stretto contatto reciproco.

Così, ai tempi del coronavirus, non solo scopriamo improvvisamente che tutta la dimensione antropica che l’uomo ha pazientemente costruito sin dalla sua comparsa sul pianeta (dai primi villaggi dell’homo sapiens al villaggio globale) si fonda sul grande presupposto del contatto fisico e della vicinanza; ma anche che la dimensione del mentale (senza volere, con questa distinzione, sposare per forza una posizione cartesiana), si fonda sullo stesso presupposto, talmente grande da non essere visibile, come la cima di una montagna quando si è alle sue pendici. Ora che siamo costretti alla distanza, ora che il contatto fisico tra pari – siano essi parenti, amici, colleghi, passanti – ci manca, scopriamo quanto questo presupposto, se viene meno, rischia di far crollare l’intera struttura sociale.

Naturalmente, questa scoperta potrebbe offrire il fianco agli entusiasti del web e, in particolare, dei social media. In effetti, nella situazione emergenziale che stiamo attraversando, sembrano avere maggiori risorse i giovani, che di social media sono abituati a nutrire le loro giornate, piuttosto che gli anziani, che spesso di social non hanno neanche mai sentito parlare e che in questo momento sembrano essere gli individui non solo più a rischio sanitario, ma anche maggiormente soggetti alle sindromi da abbandono e alla solitudine. Tuttavia, questa posizione banalizza un problema ben più complesso. Certo, in molte attività sociali il contatto fisico può essere sostituito dal contatto virtuale (conversazioni tra amici, riunioni di lavoro, incontri culturali, lezioni scolastiche a distanza, visite museali, ecc.), ma non c’è dubbio che tutti noi viviamo l’esperienza virtuale come un surrogato di quella reale. Se ci sentiamo via Skype per una conversazione è perché siamo impossibilitati a vederci, come dimostra il fatto che se potessimo sceglieremmo di incontrarci; allo stesso modo, un insegnante può condurre una lezione in streaming, ma non vede quello che fanno, nel frattempo, gli studenti, relegati, tra l’altro, al ruolo di meri ascoltatori passivi, che non possono intervenire spontaneamente, neanche con un motto di spirito intelligente ed educato, se il docente non gli concede la parola; oppure, posso compiere una visita virtuale in un museo, ma l’esperienza estetica vissuta sarà ben diversa dalla fruizione fisica (cioè attraverso i sensi naturali) dell’opera d’arte. Ma ammettiamo pure che l’esperienza virtuale sia ontologicamente diversa, non per forza inferiore o surrogata, da quella reale, come del resto, in campo estetico, alcuni interessanti orientamenti nella ricerca attuale sembrano accettare. Ebbene, tutti questi esempi appartengono ad attività umane tipiche di una società moderna e complessa, che ha elaborato modi raffinati per vivere insieme. Se, tuttavia, scendessimo ai nodi più essenziali dell’attività umana, quelli che riguardano direttamente la vita, non si potrebbe prescindere dalla vicinanza del corpo: la cura medica, la sessualità, la produttività. Come posso farmi curare a distanza? Come posso avere un rapporto sessuale a distanza? Come posso produrre (non guadagnare, che è una cosa diversa) una qualche forma di prodotto necessario alla vita a distanza, senza sporcarmi le mani? Alle sue radici più basilari, la vita umana (e, direi, quella animale) sembra non poter fare a meno del contatto fisico tra individui. Senza contare, lo ripetiamo, che anche altre forme di attività per così dire secondarie (intendendo, con questo termine, non essenziali alla vita), se sperimentate a distanza, sono vissute non solo come qualitativamente inferiori rispetto a quelle reali, ma addirittura nell’attesa che l’esperienza reale sia possibile, proiettandoci in un futuro migliore nel quale i nostri corpi torneranno ad essere in contatto.

Per concludere, il corpo (quello stesso corpo attraverso cui il virus si propaga sfruttandolo come ambiente per la propria proliferazione), il corpo che nella società del 3° millennio si sta disincarnando poiché sempre più pezzi di vita si stanno spostando nel web, sembra, in conseguenza alla crisi sanitaria che stiamo attraversando, riacquistare il ruolo di perno dello spazio comune, che a sua volta è il cardine della nostra società. Inoltre, benché possa suonare paradossale, sembra giocare il ruolo di centro del nostro spazio psichico, dal pensiero agli altri stati mentali. Probabilmente, non saremmo mai giunti a questa conclusione se non ci trovassimo nella situazione di dover rinunciare al contatto tra corpi.

Fino a qui tutto sembra abbastanza intuitivo. Ma se provassimo a compiere un passo ulteriore, ci accorgeremmo che il corpo rischia di diventare l’ago della bilancia di una sfida che da tempo è al centro delle riflessioni di sociologi e teorici dei new media, la quale, ora più che mai, sembra giungere al suo atto decisivo: cosa ne faremo del nostro corpo nel caso in cui scoprissimo che, grazie alle nuove tecnologie, saremo socialmente sopravvissuti rinunciando a molte delle sue funzioni? Come lo considereremo nel caso in cui una società altrettanto raffinata come quella che fin qui abbiamo costruito sarà possibile anche a distanza, limitando i contatti alle sole attività vitali come quelle descritte sopra? Mentre pongo in modo volutamente provocatorio questa domanda, sento che dentro di me la risposta si staglia in modo netto: adottando una nozione che di solito sono restio ad utilizzare, quella di autenticità, senza dubbio è il corpo il fulcro attraverso cui compio le esperienze più autentiche, da quelle individuali a quelle che mi mettono in relazione con gli altri. E in attesa di poter utilizzare di nuovo il mio corpo per tutte le attività che mi mancano, mi chiedo piuttosto in che modo potrò farne un’esperienza più sapiente. Ma evidentemente questo è oggetto di un’altra riflessione.